Il Fiesolano

Léon Deubel, l’ultimo poeta maledetto

Leon Deubel, lapide

Se in questi giorni siete in coda alla Coop di Fiesole, avrete probabilmente notato, dall’altra parte di via Gramsci, sopra il portone del numero 7, una lapide in francese. Ricorda “Léon Deubel, poète français (1879-1913) qui écrivit dans cette maison en octobre et novembre 1903 Sonnets d’Italie, La Lumière natale. Ses amis, ses admirateurs”, ovvero, “Léon Deubel, poeta francese (1879-1913) che ha scritto in questa casa nell’ottobre e novembre 1903 Sonnets d’Italie, La Lumière natale. I suoi amici, i suoi ammiratori”. Ma chi era Léon Deubel? Era l’ultimo dei poeti maledetti e la sua vita breve vita merita di essere conosciuta. Abbiamo chiesto di raccontarcela a Cecilia Braccesi, appassionata ed esperta di letteratura francese.

di Cecilia Braccesi

Parafrasando una nota canzone di Sergio Endrigo, se passate da via Gramsci al numero 7 toglietevi il cappello e parlate sottovoce, perché qui ha soggiornato l’ultimo dei poeti maledetti francesi, Léon Deubel. Una targa sopra quel portone lo ricorda. Un’iscrizione che sta lì dal maggio 1952 quando il Comitato fiorentino-francese che sosteneva il poeta, con il sindaco di Firenze Giorgio La Pira e quello di Fiesole Luigi Casini, decise così di celebrare e ricordare il suo passaggio (un’inaugurazione di cui parlò persino Le Monde). Dite la verità: la lapide non l’avreste notata se non ci fosse stata la recente necessità di sostare in coda prima di poter entrare al supermercato di fronte.
Il 22 marzo 1879 era nato questo seguace di Mallarmé, autore soprattutto di sonetti, sconosciuto in Italia ma non nella sua Francia che gli ha dedicato una piazza a Parigi in zona Bois de Boulogne, una strada a Belfort, sua città natale, e un busto nel luogo in cui è morto, a Maisons-Alfort, non lontano dalla capitale.

Addentrandosi nella vicenda umana di quest’uomo, si scopre che in lui si nasconde l’ultimo poeta maledetto, nella sua forma più pura, quella che unisce la vocazione assoluta dell’arte per l’arte a una vita breve, irta di difficoltà, molta miseria e un finale tragico.
Léon Deubel nasce nel 1879 a Belfort, nella Francia nordorientale, fra Lione e Strasburgo, in uno dei più piccoli dipartimenti di Francia. La famiglia Deubel aveva un piccolo hotel con cucina che non dava da vivere: di qui l’esigenza di un trasferimento a Parigi, preludio di una separazione dei troppo giovani coniugi e poi della morte della madre quando Léon aveva solo sette anni. Travolto da un’infanzia turbolenta – che lo destabilizzerà per sempre – per la severità dalle zie materne alle quali viene affidato, si rifugia spesso nelle strade di una Parigi che, in questa fase, sono una discesa all’inferno. Come lui stesso racconta: “Sono rimasto per quarantotto ore senza mangiare altro che una buccia d’arancia trovata per strada. Trascorro tutta la notte a camminare per non farmi prendere e al mattino dormirò tre ore tra due colonnati al Louvre”.

Leon Deubel
Leon Deubel

Quando il padre interviene per affidarlo agli zii paterni, la sua vita cambia: potrà frequentare il collegio e darsi poi all’insegnamento per alcuni anni, dopo aver rifiutato più volte la possibilità di lavorare nell’avviata attività commerciale di generi coloniali della famiglia. Un’eredità inaspettata di 12mila franchi gli permette di realizzare il suo sogno, già manifestato nelle lettere agli amici durante il servizio militare a Nancy, quello di venire in Italia. 

Parte nel settembre 1903, visita Venezia, poi Ravenna e Firenze. È proprio a Fiesole, all’attuale numero 7 di via Gramsci, che si stabilisce nell’autunno 1903: lo sappiamo da una cartolina inviata al suo amico Louis Pergaud (poeta e scrittore anche lui, autore della Guerra dei bottoni) nella quale disegna il tricolore francese sulla riproduzione della casa. Questi due mesi, complice la luce del sud, saranno l’unico periodo di tregua felice in una vita che non gli riserverà nessuna gioia né umana, né letteriaria. Fiesole, con la sua storia e il sito archeologico, gli darà ispirazione per scrivere i Sonnets d’Italie. Da qui, quasi ogni giorno scende in tram verso Firenze per scoprire i tesori della città e parlare con gli artisti dell’epoca. Scrive all’amico Eugène Chatot nel 1903:

Ho deciso, non vado oltre. Affitterò una camera a Fiesole e vivrò per un mese il più bel sogno che possa fare quaggiù. Sfornerò dei versi sublimi. La natura qui è così bella, i musei e le chiese così ricchi che questa città ti attrae come la più amorevole delle amanti.

Viene invitato a Parigi dall’amico Pergaud col quale andrà a vivere in una misera camera conducendo una vita di espedienti nella miseria più nera sopportata con una tale dignità interiore ed esteriore che nessuno dei suoi amici si renderà mai veramente conto della gravità della situazione.

Si suicida a 34 anni – portando a compimento un pensiero che tante volte lo aveva accompagnato – gettandosi la sera del 4 giugno 1913 nelle acque della Marna dopo aver bruciato tutti i suoi manoscritti. Qualche libro lo ha lasciato ai suoi amici dopo un pic-nic sulle stesse rive del fiume solo qualche giorno prima. Fu ripescato il 6 giugno, riconosciuto grazie al libretto militare, e fu solo per l’intercessione del suo amico Pergaud che evitò la fossa comune. È sempre l’amico ad attivare una sottoscrizione che permetterà di far erigere un busto in memoria e pubblicare la sua opera nel 1914. Sepolto al cimitero parigino di Bagneux con un’epigrafe che Deubel stesso aveva scritto in versi negli anni precedenti:

Epitaffio

Ho voluto che tutta la mia vita
Fosse come un arco di chiarezza
nel quale la volta, ampia e fiera
Scendesse verso l’eternità
E attraversasse nella luce
Il torrente nero della città.

Il suo percorso di vita fu caotico e solitario perché non riuscì mai a integrarsi nella vita sociale, a causa dell’orgoglio e delle difficili vicende familiari che lo resero solitario ed eccentrico.

Una delle sue poesie più celebri fu scritta alle 3 del mattino del 1900 su una panchina di Place du Carrousel a Parigi:

Angoscia
Signore! Sono senza pane, senza sogni e senza casa.

Gli uomini mi hanno cacciato perché sono nudo,

E questi fratelli in Voi non mi hanno riconosciuto

Perché sono pallido e perché piango.

Li amo comunque come era scritto

E ho imparato da loro che la vita è amara,

Dal momento che non c’è donna che voglia essere mia madre

E che non c’è cuore che ascolti le mie grida.

Sento intorno a me che i rumori si sono attenuati,

Che gli uomini sono stanchi della loro festa eterna.

È vero che sono sordi a chi li invoca.

Signore! Perdonami se non mi hanno amato.

Signore! Ero senza sogni ed ecco la luna

Sale il cielo limpido come una strada maestra.

Sento che il suo bacio è per me una Pentecoste,

E ho portato la mia pena ai confini della sua duna.

Ma ho molta fame di pane, Signore! e di baci!

Un grande bisogno di amore mi tormenta e mi ossessiona,

E sulla mia panchina di pietra dura si susseguono

I fantasmi di coloro che lo avrebbero placato.

Il volo dell’ora emigra in ombre infinite

Il cielo plana, un passo sale nel silenzio,

L’alba indica le botti nella foresta dell’ombra,

Ed è la vita, enorme, che ricomincia!