di Damiano Fedeli
Chi pensava che tutto quello che abbiamo passato nei mesi scorsi ci avrebbe resi migliori, ha dovuto ben presto fare i conti con una realtà diversa. Dopo i mesi estivi in cui tanti hanno fatto finta di nulla bollando come cassandre quanti mettevano in guardia sull’arrivo dell’autunno, adesso ci troviamo ad affrontare una situazione che torna a farsi difficile. Colpevolmente impreparati. E complici i nervi tesi per una crisi che da sanitaria diventa inevitabilmente economica e sociale, la reazione in tanti è stata quella di dare una colpa a qualcuno.
Facile all’inizio, quando era il virus “dei cinesi”, salvo poi diventare il virus degli italiani e poi dei francesi, degli inglesi, degli spagnoli, degli americani. Era sempre il virus di qualcun altro, prima di diventare il proprio. Tendenza evidentemente insita nella natura umana, se lo storico greco Tucidide, descrivendo la peste di Atene del 430 avanti Cristo, scriveva: “Su Atene il morbo si abbatté fulmineo, attaccando per primi gli abitanti del Pireo. Cosicché si mormorava che ne sarebbero stati colpevoli i Peloponnesiaci con l’inquinare le cisterne d’acqua piovana mediante veleno”. Un capro espiatorio lo si cercava già allora. Per arrivare al Manzoni che descrive nei Promessi sposi la caccia agli untori della peste, individuati in questo caso nei francesi: “Uno che passava, li vide e si ferma; gli accenna a un altro, ad altri che arrivano: si formò un crocchio, a guardare, a tener d’occhio coloro, che il vestiario, la capigliatura, le bisacce, accusavano di stranieri e, quel ch’era peggio, di francesi. Come per accertarsi ch’era marmo, stesero essi la mano a toccare. Bastò. Furono circondati, afferrati, malmenati, spinti a furia di percosse, alle carceri. Per buona sorte, il palazzo di giustizia, è poco lontano dal duomo; e, per una sorte ancor più felice, furon trovati innocenti, e rilasciati”.
Così con il Covid-19, in un crescendo che ha visto prima nel mirino i cinesi, poi via via con il passare dei mesi ce la si è presa, in ordine sparso, contro quelli che vanno a correre, contro quelli che portano fuori il cane a pisciare, quelli che vanno al ristorante, quelli che fanno l’aperitivo, contro i vecchi che vanno tre volte al giorno al supermercato e contro i giovani che vanno a pomiciare alle panchine.
Con la seconda ondata il virus è più vicino a noi, anche a Fiesole che nella prima era stata un’isola tutto sommato felice (nonostante, va detto, da marzo a oggi i morti per il coronavirus siano nel nostro comune ben sei). Adesso morde da vicino: tanti di noi conoscono persone positive, in tanti hanno ricevuto telefonate perché un collega, un parente, un qualcuno che si è frequentato è risultato positivo. Ma ancora, incredibilmente, davanti a una situazione tanto complessa si pensa che ci possano essere delle risposte semplici.
Prendiamo il caso del focolaio che è stato scoperto e prontamente isolato nel Cas, il Centro di accoglienza per stranieri di Borgunto. Non appena è stato identificato il problema, sono scattate le misure delle autorità sanitarie che sono gli stessi identici protocolli validi per tutto il resto della popolazione. Con l’isolamento dei positivi (portati in strutture della Asl), i test per tutti gli ospiti della struttura, la ricostruzione dei contatti stretti. E qui va sottolineato questo: forse fortunatamente in questo caso di contagio ma – va detto – assai tristemente per l’integrazione di queste persone, i contatti stretti con la popolazione fiesolana non ce ne sono molti. Alzi la mano chi conosce il nome di uno di questi migranti ospiti a Borgunto. Chi ne conosce la storia, il Paese di provenienza. Ma anche chi ha avuto un problema con uno degli ospiti. Chi sa dire qualcosa di più di – uso qui volontariamente un linguaggio disgustoso che ripudio e che non mi appartiene – “ho visto un negro alla Coop, ne ho visti un gruppetto sul 7”. Eppure in tanti si sono affrettati a commentare con un livore che stupisce (fatevi un giro in rete e vi si accappona la pelle) e che non appartiene, sinceramente, alla comunità fiesolana. Qualche politico ha soffiato sul fuoco. Qualcuno chiede la chiusura del centro. Domanda: alla Scala di Milano è scoppiato un focolaio nel coro e fra i fiati dell’orchestra. Gli stessi commentatori e politici chiederebbero la chiusura della Scala adesso?
Un attimo di calma, davvero. Senza voler essere buoni o “buonisti” o “falsi buonisti” (espressioni queste ultime due che qualcuno dovrebbe spiegare che cosa significhino), va detto questo: in un momento così complesso, le risposte semplici lasciano il tempo che trovano. E il virus cammina con noi, democraticamente, infettando milionari e senza tetto, bianchi, neri, rossi, gialli, di sinistra, di destra, di centro, cristiani, musulmani, pastafariani. Se neanche una tragedia come questa ci fa capire quanto interconnessi e deboli siamo singolarmente, quanto siamo bruscoli che camminano su una arancia persa nello spazio, c’è da essere pessimisti. E l’immagine manzoniana che viene alla mente è un’altra, quella dei capponi di Renzo che, condotti all’inevitabile fine in padella, non trovavano di meglio da fare che beccarsi fra di loro.