di Damiano Fedeli
Quindici ottobre 1918. Il dottor Luigi Marussig, medico condotto a Caldine, prende una cartolina postale e scrive al Comune di Fiesole. Si è ammalato anche lui della terribile influenza “spagnola” ma accetta di continuare a lavorare: “Solo per sciogliere invincibili difficoltà a codesta Amministrazione (benché convalescente) ho accettato di riprendere servizio – scrive – ma solo per quel poco che mi è consentito”. Un gesto che gli costa uno sforzo notevole, dal momento che il medico si trova “dopo cinque giorni di febbre e nessun riposo, in uno stato di debolezza e di deperimento organico totale, che mi sarebbe impossibile supplire a tutta la estesissima condotta, distante anche in piena salute e in tempi normali”. Con la pandemia di influenza in corso, la situazione a Fiesole e dintorni è drammatica, fa sapere il dottor Marussig: “Da Pian di San Bartolo, da Basciano, da Fontelucente, dal Calabri, da Sant’Andrea, dall’Olmo, da Saletta, Montereggi, Bosconi e Riorbico, è un continuo via vai di chiamate, e sarebbe impossibile farle tutte anche con un buon cavallo”. Il medico, un misto fra lo stizzito e lo scoraggiato, comunica che a volte dovrà dire di no: “Farò dunque quello che posso; e mai lunghi tragitti a piedi nel qual caso (come pure di notte) mi riserbo il diritto di rifiutarmi. Ad un poco di convalescenza, dopo questa febbre, credo di avere diritto, a queste condizioni – ribadisce – farò quello che posso”.
I DOCUMENTI DELL’ARCHIVIO COMUNALE
Dalle carte dell’archivio storico comunale di Fiesole – recuperate da Lucia Nadetti su sollecitazione dell’ex direttrice Maura Borgioli – emergono storie come questa del passaggio a Fiesole in quell’autunno 1918 del terribile morbo che fra il ’18 e il ’20 colpì un numero stimato di 500 milioni di persone in tutto il mondo uccidendone 50 milioni. Storie che ci riportano a quello che succede in questi giorni col coronavirus. “Purtroppo non è stato conservato un prospetto riepilogativo, ma dalla somma delle denunce – spiega l’archivista – si ricava che furono contagiate a Fiesole oltre 550 persone e che i morti denunciati furono 28”.
Inizialmente, nella primavera del 1918, la pandemia fu sottovalutata: i morti erano pochi. Il morbo raggiunse la Spagna, Paese che non era in guerra e in cui i giornali, quindi, non erano soggetti a censura. Ragione per cui scrissero a lungo della malattia, a differenza di quanto accadeva nei Paesi impegnati nel conflitto dove le vicende belliche e la censura tenevano banco. Ecco il motivo dell’etichetta “spagnola” che così, senza nessun fondamento scientifico e senza che questo significasse alcunché sull’origine del contagio, fu data al morbo. Se a luglio del 1918 la prima ondata sembrava essersi conclusa senza particolari danni, fu la seconda, nell’autunno del 1918, a essere molto più devastante e a mietere vittime senza pietà.
LA CHIUSURA DI SCUOLE E CINEMA
Dai documenti fiesolani di quei mesi autunnali emergono tante analogie con i nostri giorni di pandemia da Covid-19. Ma anche le debite differenze, in una società prevalentemente contadina e – cosa da non dimenticare – in piena prima guerra mondiale.
Ecco così che anche in quel 1918 si arriva alla chiusure. Il cinque ottobre un telegramma del prefetto Riccardo Zoccoletti al Comune di Fiesole impone la chiusura delle scuole. Un medico di Compiobbi, il dottor Giuseppe Pucci Da Filicaia, di fronte a voci di riapertura delle classi già per il giorno 16 ottobre, prende carta e penna preoccupatissimo e scrive al Comune: “ritengo opportuno rinviare l’apertura delle scuole stabilita per il giorno 16 a data indeterminata”. Il Sindaco Alfredo Monetti riaprirà le scuole il 2 dicembre.
Subito dopo è il turno dei cinema. L’11 ottobre 1918 il prefetto di Firenze Zoccoletti “Visto il continuo diffondersi dell’influenza nella Provincia e la necessità quindi di impedire gli affollamenti in locali chiusi, ove il pubblico continuamente si ricambia” decreta la chiusura di “tutti i locali dove si danno spettacoli cinematografici”.
Anche allora come oggi le statistiche e i numeri erano importanti. La prefettura scrive un telegramma al Sindaco di Fiesole e agli altri della provincia: “prego invitare medici tutti denunziare ufficio comunale giornalmente numero malati e morti per influenza e mettendo generalità”. La stessa prefettura raccomanda la sanificazione delle abitazioni dei contagiati, per lo meno nel caso dove ci siano state delle morti: “Si raccomanda che disinfezioni siano eseguite almeno nelle abitazioni ove avvennero decessi”. Ad esempio il 10 ottobre il Comune di Fiesole chiede all’ufficiale sanitario di disinfettare Villa Giulia in via della Fonte Sotterra, casa in affitto al signor Laurindo Magi dove il giorno 7 ottobre è morta sua moglie Anna Danielli per “influenza infettiva con polmonite”.
Su quest’obbligo di comunicare i dati il prefetto insiste particolarmente, con varie comunicazioni. Ecco così che il solerte dottor Marussig appena rientrato in servizio e ancora convalescente compila la sua scheda, dodici contagiati in un giorno solo e solo fra Caldine e Olmo.
FARMACIE APERTE SEMPRE, ANCHE LA DOMENICA
Se scuole, cinema e luoghi di affollamento vengono chiusi, delle farmacie si prolungano invece gli orari di apertura, con il permesso di aprire persino di domenica. Il 14 ottobre del 1918 il prefetto invia al Sindaco di Fiesole e al farmacista Giuseppe Perna in piazza Mino il decreto in cui comunica che “i farmacisti stessi hanno facoltà di aprire e chiudere dopo le ore fissate dal suddetto decreto. Sono sospesi pure i turni domenicali in modo che tutte le farmacie possano nelle domeniche essere tenute aperte”. Ancora qualche giorno e – il 23 ottobre – arriva anche la chiusura dei cimiteri.
PUBBLICA SICUREZZA CON POCHI UOMINI
Il sindaco Monetti deve far fronte in quel 1918 anche ai problemi di pubblica sicurezza, nonostante il poco personale a disposizione. Per giunta a una delle poche guardie su cui può contare, Giorgio Montorzi carabiniere “a piedi”, arriva la cartolina per il servizio militare, con l’Italia in guerra. È il Sindaco stesso a richiederne la dispensa: ne ha bisogno assoluto a Fiesole, dove gli ha attribuito la qualifica di agente di pubblica sicurezza. “Considerato che nella frazione delle Caldine si è presentata l’assoluta necessità della presenza di detta guardia sia per ragioni di pubblica sicurezza, come per i molteplici rapporti di quella frazione col Capoluogo per la quale è necessario un personale piuttosto numeroso, mentre in quella frazione non c’è alcuno che si interessi ai molteplici ed importanti bisogni”. Di quel carabiniere il Sindaco ha bisogno anche per controllare la qualità dei cibi messi in vendita “sevizi annonari resi ancor più importanti per la qualità dei generi messi in commercio”.
NOTIZIE FALSE ANCHE SENZA INTERNET
La “spagnola” ha in comune con il Sars-CoV-2 di questi giorni il fatto di annidarsi in profondità nei polmoni, portando a gravi polmoniti bilaterali potenzialmente fatali. Anche confrontando le disposizioni che in quel 1918 arrivano da Roma a Fiesole e a tutti i comuni del Regno si ritrovano analogie con i giorni di oggi. Scrive una circolare il presidente del Consiglio Vittorio Emanuele Orlando (che era anche ministro degli Interni), tentando di zittire quelle che oggi definiremmo “fake news”, bufale secondo le quali si trattava di un “morbo esotico”. Per il Governo è, invece, una, seppur grave, forma di influenza. Afferma deciso il 17 ottobre 1918 Orlando: “Di fronte a qualche caso eccezionale di complicanze polmonari particolarmente gravi, riuscite rapidamente ad esito letale con sintomi improvvisi di asfissia, si è voluta poi identificare in peste polmonare, così come in altri paesi, provati prima del nostro, si era parlato, per analoghe circostanze, di peste cinese o di Manciuria (…) Ora, si tratta da noi, come si è trattato presso gli altri paesi di voci arbitrarie, assurde, frutto di incompetenza e di fantastica sovraeccitazione”. E si chiede a tutti – “stampa politica e professionale, corpo sanitario della provincia, enti di propaganda sociale e patriottica” e persino al clero – di non diffondere notizie false.
LE RACCOMANDAZIONI DI ALLORA
Alle autorità si raccomanda un’identificazione rapida dei focolai, una “speciale vigilanza per caserme, convitti, scuole, teatri, cinematografi, per evitare eccessivi affollamenti ed ottenere rigorosa pulizia”. Infermieri e medici debbono “indossare vestaglia, non omettere disinfezione viso e mani e munirsi anche di opportuni schermi filtranti per proteggersi contro inalazione pulviscolo infetto quando speciali circostanze lo consiglino”. Si consiglia sempre di far “limitare a casi estremi le visite del pubblico negli ospedali comuni”. E si raccomanda la “disinfezione sistematica di oggetti e punti maggiormente esposti agli inquinamenti boccali e nasali, quali fazzoletti, apparecchi telefonici ecc.”.
Lo stesso ministero dell’Interno aveva preparato in quell’anno un vademecum con le “istruzioni popolari per la difesa contro la influenza”. Anche questo lo si ritrova nell’archivio storico del Comune di Fiesole. Nel librettino si ribadisce che il morbo non è una malattia importata da Asia o da Africa ma è un’influenza, seppure grave. Il testo ricorda come dopo una prima ondata mite a maggio 1918, una seconda più grave è arrivata fra settembre e ottobre, “con complicazioni specialmente polmonari”. I sintomi sono quelli definiti di un “raffreddore di testa”, con banali sintomi influenzali. Per molte persone, come per il Covid-19, la cosa si fermava qua. I casi più gravi si manifestavano, con le complicazioni polmonari, dall’ottavo giorno. Secondo il documento del ministero degli Interni del 1918 la mortalità non era superiore al 2/3% dei colpiti.
Così si indicavano le linee di condotta da tenere. Si raccomandava di non ascoltare “voci superstiziose od esagerate”, ma di mantenere “calma e serenità dello spirito, vita sobria e ordinata”. Troviamo anche allora il concetto attuale delle “droplet”, le “goccioline di saliva”: “L’infermo ed il convalescente possono quindi proiettare il germe intorno a sé tossendo, starnutendo od anche semplicemente parlando, poiché molte persone sogliono disseminare intorno goccioline di saliva mentre parlano ad alta voce”.
Si stila un decalogo con i “sette precetti della profilassi”, dall’evitare il contatto coi malati e i convalescenti, a “condurre vita sobria e ordinata, sfuggire qualsiasi intemperanza, evitare i luoghi chiusi di pubblico ritrovo di ogni genere, i viaggi non necessari”. E, ancora, “evitare molestie e pericoli ai vicini: non sollevando polvere nei locali frequentati; non sputando sul pavimento e possibilmente abituandosi a non sputare affatto”.
Anche allora c’erano gli asintomatici, naturalmente. “Ciascuno è esposto ad incontrare dovunque persone che starnutiscono, tossiscono o spargono goccioline di saliva parlando e sputando e che sono degli influenzati anche senza che essi medesimi lo sappiano”. Ecco così che si raccomanda di evitare i luoghi pubblici chiusi affollati, come anche i treni e i tram. Con l’invito a fare quelle che oggi chiameremmo sanificazioni: “Le Autorità procedano ad una sistematica pulizia di questi locali e di questi veicoli con mezzi appropriati, che allontanino quello che vien detto abitualmente sudiciume”, evitando di “sollevare la polvere la quale può contenere varii germi morbosi ed essere respirata dalle persone”. Il ministero non prevedeva uso di mascherine allora, ma raccomandava, non si sa come, di “abituarsi a parlare senza proiettare gocciole di saliva intorno a sé”. E di curare l’igiene, chiamata “nettezza della persona”: “tornando a casa, è indispensabile lavarsi accuratamente le mani con acqua e sapone”. Un lavaggio da ripetersi più volte al giorno “e in ogni caso sempre dopo un contatto sospetto, così come pure prima di mangiare”. Lavarsi i denti, anche, è pratica raccomandata: “con una tenue soluzione antisettica, aiutando la pulizia dei denti con uno spazzolino, e fare dei gargarismi alcalini a scopo detersivo o disinfettante”. Fra le raccomandazioni anche quelle della pulizia della casa: “Bisogna che giungano dovunque la scopa ed il cencio umido”.
Chi si ammala “deve mettersi a letto immediatamente e chiamare il medico”, anche con sintomi lievi. E isolarsi. “Anche nei riguardi della propria famiglia, bisogna avere la fermezza di segregarsi in una stanza con pochi mobili e senza tappeti e con le persone strettamente necessarie all’assistenza, di tossire nel proprio fazzoletto, di accogliere gli sputi in una sputacchiera”. Saranno i medici a dare i consigli necessari su come disinfettare gli oggetti del malato. Se però il medico non viene, “un disinfettante è alla portata di tutti: la liscivia bollente od in altri termini il bucato”.