di Damiano Fedeli
È il 16 maggio del 1996. Lorenza Venturi, fiorentina, ha appena partorito Alice, la sua primogenita, ma deve rimanere ancora qualche giorno ricoverata. Lorenza sarà l’ultima mamma a lasciare l’ospedale Sant’Antonino di Fiesole. Proprio in quei giorni veniva chiuso per sempre, mettendo dolorosamente fine a un’esperienza quasi ventennale, quella del reparto di maternità che aveva visto Fiesole all’avanguardia in Italia nel campo del parto dolce. “Avevo avuto un parto complicato, per cui sono dovuta rimanere quasi una settimana”, racconta adesso Lorenza. “Ero l’unica in reparto, mentre tutti lì intorno stavano smontando tutto. Una situazione un po’ surreale, con i medici e le ostetriche che venivano da me e mi facevano qualche battuta. Ma si vedeva che l’atmosfera per loro era triste. Avevo scelto di venire a Fiesole perché lì si facevano cose di avanguardia, come il parto in acqua (che non potei però fare) o il parto naturale. Tenevano il bambino in camera accanto alla madre e il babbo poteva assistere al parto. Ricordo che dalle finestre, mentre ero in camera da sola, guardavo verso il panorama su Firenze. Era maggio e c’era questa vista pazzesca, con il sole che arrivava piano piano sulla città. Un momento idilliaco, mentre dentro si respirava davvero la fine di un’epoca”. Adesso la bambina nata allora ha 24 anni ed è astrofisica, racconta la mamma con orgoglio. “Ricordo le tante feste che mi fecero anche in Comune a Fiesole quando andai a registrarla. Mi dissero: ‘adesso che chiude la maternità, chissà chi nascerà più a Fiesole…’”.
L’INNOVAZIONE DI CUTRERA

Il reparto di maternità fiesolano era stato aperto nell’ottobre 1979, guidato da un allora cinquantunenne ginecologo, il professor Armando Cutrera, scomparso poi nel ’92.
Cutrera veniva da Careggi “ma lasciava grande spazio ai suoi medici e alle ostetriche. Aveva capito una cosa importante: meno una donna la si tocca durante il travaglio e meglio è”, ricorda la moglie Esther, di origine svizzera. “In Svizzera le cose erano diverse da qua, già mio padre era presente quando sono nata. Mio marito Armando ebbe la voglia di fare anche qui una cosa nuova, con il parto dolce, la vasca, i bambini tenuti accanto alla mamma, la musica, la luce bassa. Per mio marito questo ospedale era tutto: aveva voluto creare qui una maternità per le donne. E poi anche ridare un ruolo importante alle ostetriche, una concezione molto moderna che poi si è diffusa anche altrove. Qui mio marito fece un lavoro che gli piaceva ma che lo ha anche consumato molto. Io stessa ho partorito qui nel 1980 il mio ultimo figlio, Matteo. Era davvero una bella squadra”.
IL “METODO FIESOLE”
“Eravamo pochi, cinque medici e cinque ostetriche. Poi se ne sono aggiunti altri due-tre”, ricorda ora il ginecologo Angelo Scuderi che faceva parte di quel team. “Sono stati anni intensi, che ci hanno visto pionieri in Italia e fra i primi in Europa a gestire una maternità in un certo modo. Il reparto fiesolano fu aperto nel ’79 forse anche per scaricare un po’ di pressione da Careggi sulle interruzioni di gravidanza, rese possibili l’anno prima dalla legge 194. “Facevamo questo servizio anche bene, con molta umanità”, ricorda Scuderi. Poi però il presidio fiesolano – l’“ospedalino”, come ancora oggi lo chiamano affettuosamente i fiesolani – prese una direzione innovativa sulla maternità. “Per capire quanto fosse pionieristico quello che facevamo a Fiesole bisogna fare un passo indietro, e considerare com’era allora la maternità in Italia”, racconta Scuderi. “In ospedali come Careggi le donne dovevano stare fisse a letto per tutto il travaglio, attaccate alla flebo. Dovevano partorire in sala parto, veniva usato il forcipe, la pericolosa pinza. I medici erano piuttosto ‘aggressivi’, molto tecnici, con poca capacità di attendere. Le ostetriche erano poco più che le loro infermiere”.

Nella primavera del 1980, ricorda ancora Scuderi, “ci fu a Firenze un convegno internazionale con i più grandi nomi dell’ostetricia, fra cui due medici francesi come Frédérick Leboyer, l’ostetrico e ginecologo ideatore del parto dolce, e Michel Odent, fautore dell’ecologia della nascita. Si cominciò a parlare del bambino come essere umano che sente il calore, il dolore, che non deve essere accecato dalla luce appena nasce”. Ecco, così, che nasce il “metodo Fiesole”, un approccio molto diverso alla maternità rispetto a quello che c’era allora. “Al Sant’Antonino le donne in travaglio non erano costrette a letto come negli altri ospedali. Potevano muoversi, passeggiare, andare sulla grande terrazza con vista su Firenze. Una cosa apparentemente semplice, ma che allora era rivoluzionaria. E poi, altra novità: i compagni potevano assistere al parto. Fino ad allora, a Careggi ad esempio, era come nelle vignette umoristiche: moglie in sala parto, marito fuori a fumare una sigaretta dopo l’altra”.

IL RUOLO DELLE OSTETRICHE
Il cuore del gruppo erano le “cinque ostetriche, appena uscite dalla scuola, senza esperienza ma con tantissimo entusiasmo”, prosegue Scuderi. “Io stesso avevo avuto modo durante la specializzazione di stare accanto alle ostetriche e impararne i piccoli segreti. A Fiesole avviammo un percorso dove non era più il medico al centro del parto, ma la donna. Una libertà che ovviamente era controllata, nel rispetto della fisiologia, da parte dell’ostetrica e del medico. Le luci erano basse. I bambini appena nati venivano messi con la mamma, non parcheggiati nella nursery che a Fiesole non avevamo nemmeno”. Ricorda ancora Scuderi: “Negli altri ospedali le donne dovevano partorire sdraiate in sala parto, da sole. A Fiesole potevano partorire accovacciate, sullo sgabello, in piedi, o su un lettone dove potevano trascorrere il tempo del travaglio col compagno”.
Una delle ostetriche fiesolane, Rita Breschi, è diventata poi ostetrica dirigente nell’Azienda sanitaria fiorentina e dal 2007 al 2014 ha diretto il reparto Margherita, il centro nascita dedicato al parto dolce a Careggi. Un’esperienza che ha raccontato nel suo volume “Partorirai con amore”.

IL PARTO IN ACQUA
A Fiesole arrivò anche una delle prime vasche in Italia per il parto in acqua. “Lo facevano solo pochissimi in Europa. Non esistevano nemmeno delle vasche adatte per partorire. Trovammo un artigiano che la realizzò, con una colata unica, in vetroresina blu. Era anche un po’ più grande di quelle che esistono ora: la avevamo disegnata con le ostetriche. Qualcuna delle donne ci partoriva, altre ci trascorrevano il tempo del travaglio. Lo scopo era di farle rilassare, mandare via ansia e dolore”.
QUI DA TUTTA ITALIA
Insomma, Fiesole per quasi vent’anni fu “una fucina di idee e di innovazione nel campo della maternità”. I giornali cominciarono a parlarne. E arrivarono, così, partorienti da tutta Italia. “Alcune coppie arrivavano in camper. Campeggiavano vicino all’ospedale dove venivano per i controlli e aspettavano che la donna entrasse in travaglio. Le donne erano molto felici. Anche ora dopo tutti questi anni o su facebook o di persona mi ringraziano”, ricorda Scuderi.
LA FINE DI UN’ERA
La fine nel 1996 fu traumatica. La politica regionale era quella di chiudere i piccoli ospedali a favore dei grandi centri ospedalieri. Ci furono proteste, assemblee infuocate, petizioni. “Mi opposi in dibattiti anche molto duri. Ma non ci fu niente da fare”, racconta il ginecologo. Alla chiusura il team fiesolano fu sparso fra Careggi, Ponte a Niccheri, Torregalli.

Qualche anno dopo, nel 2003, chiuse anche il distretto sanitario che aveva trovato spazio nell’ex ospedale. La storia recente del Sant’Antonino è una storia di degrado e di abbandono. Con un’occupazione e uno sgombero nel 2008. E un tira e molla sulla sua destinazione: trasformazione in residenza per gli anziani o vendita da parte della Asl, proprietaria dell’immobile, per realizzarne appartamenti o un albergo di lusso? Uno dei temi su cui si è incentrata anche la campagna elettorale dello scorso anno. Con la lista Fiesole Europa del Partito Democratico favorevole a “sbloccare la procedura di vendita della struttura e a una sua trasformazione”. E, dall’altra parte, il Sindaco Anna Ravoni contraria a togliere il vincolo di destinazione e propensa a sollecitare la Asl a riqualificarlo per farci una struttura per servizi sociosanitari per la cittadinanza fiesolana.
Ma al di là della polemica politica e del futuro di un immobile che cade a pezzi, resta in chi ha vissuto quell’esperienza “una ferita aperta per un’esperienza lavorativa straordinaria a cui abbiamo dedicato gli anni più belli della nostra vita. Ancora oggi faccio fatica a pensare a quel periodo senza commuovermi”, conclude Scuderi.