di Jonathan K. Nelson
A metà Ottocento, i turisti inglesi leggevano in Città e Necropoli d’Etruria di George Dennis che Fiesole era “uno dei luoghi più pittoreschi dello scenografico territorio… con le sue ville ombreggiate dalle pergole di vite e i suoi conventi circondati di cipressi”. L’autore, tuttavia, era rimasto deluso che il teatro romano, “scoperto e scavato nel 1809 dal barone Schellersheim, un nobile prussiano”, fosse stato re-interrato in modo che i canonici della Cattedrale potessero piantarvi “fagioli o carciofi”! Le uniche parti ancora visibili nel 1848 erano alcuni gradini in pietra “e una rampa di scale che conduceva giù a uno spazio voltato in muratura in pietra a opus incertum, che i fiesolani chiamavano ‘Buche delle fate’”.

Oggigiorno molti indicano come ‘Buche delle fate’ le fessure lungo le mura etrusche vicino al Tabernacolo di Sant’Anna (foto qui sopra). Tuttavia le ‘Buche delle fate’, menzionate tra l’altro nella lapide marmorea all’ingresso dell’area archeologica, erano in realtà rovine antiche, come apprendiamo dalle Lettere XII di Angelo Maria Bandini. Il canonico, noto per la straordinaria collezione d’arte che ancora oggi porta il suo nome, nel 1800 raccontava di essere entrato personalmente all’interno di “una caverna (…) terminata in volta a mezza botte, ma talmente ripiena nel pavimento di sassi e terra, che io potevo toccare la parte più alta della volta”. Alcuni brani della sua dettagliata descrizione ci forniscono un’immagine inedita. Egli entrò carponi tra le “molte Salamandre pigrissime, e quasi stramortite, forse abbagliate della luce della torcia”. Bandini spiegava di ritenere che si trattasse delle rovine del teatro, un’intuizione geniale che poi sarebbe stata confermata dagli scavi condotti un decennio più tardi. Infatti si tratta delle strutture voltate sotterranee che sorreggono la parte alta del teatro.
Già nel 1683 il luogo era così noto che il poeta e uomo di scienza Francesco Redi vi fece riferimento di sfuggita in una lettera al Principe Leopoldo de’ Medici, scrivendo di “una fanciulla più bella di una fata morgana, o di una di quelle, che abitano nelle buche di Fiesole”. E quando, nel 1863, Cesare Cantù incluse la lettera nel suo volume La letteratura italiana: esposta alla gioventù per via d’esempj, i giovani allievi impararono l’arte della scrittura leggendo delle Buche delle fate. Nel frattempo, nei Discorsi istorici sopra l’antica città di Fiesole del 1729, Niccolò Mancini suggeriva che le ‘Fate’ dovessero il proprio nome alla Dea Fatua, oppure dalle “sette Ninfe Figliuole d’Atlante, Fondatore, come si disse, di Fiesole”.
A me piace invece l’idea che la gente avesse sentito voci di fanciulli che giocavano nelle rovine, come aveva scritto nel 1552 Antonfrancesco Doni ne I Marmi: “essendo in quelle chiasaiuole [piccoli canali] coperte a Fiesole certi fanciulli là dentro, che chiamano le Buche delle fate, et andando inanzi un pezzo con una lanterna, si spense loro il lume! Certi altri, che erano entrati inanzi … vendendo spenger loro il lume, si messero a far lor paura con boci [voci] contraffate; come i fanciulli, spauriti, corsero fuori gridando.”
Le buche fecero da sfondo a una vicenda ancor più impressionante della moderna storia d’Italia. Una testimonianza del 1945, sui Tre Carabinieri Martiri di Fiesole, pubblicata nella guida della mostra che si è tenuta nel 2019 in Sala Costantini, ci informa che Alberto La Rocca, Vittorio Marandola e Fulvio Sbarretti, insieme al loro superiore Francesco Naclerio, lasciata la caserma di Fiesole l’11 agosto 1944, con l’intento di unirsi alle forze partigiane, ed essendo rimasti bloccati a Fiesole occupata, “decisero di pernottare nelle grotte dell’Anfiteatro romano. Nelle suddette grotte rimasero fino alle ore 18 del successivo giorno 12, ora in cui un civile si recò a chiamare l’appuntato Naclerio”. Questi venne informato che “se, entro la sera stessa, i carabinieri non si fossero presentati, avrebbero ordinato la fucilazione di dieci ostaggi del paese … L’appuntato Naclerio, fortemente conturbato per la notizia ricevuta, fece ritorno presso i suoi compagni e la comunicò ad essi che ne rimasero, a loro volta, atterriti. Dopo breve riflessione … decisero unitamente di presentarsi senza porre altro indugio”.
Grazie al lavoro teatrale Fiesole 1944: La Scelta, scritto da Emanuela Agostini e rappresentato lo scorso anno Fiesole, possiamo immaginare il terrore dei carabinieri nell’oscurità delle “grotte” dove risuonava funesto il gocciolio dell’acqua. Negli anni Sessanta i ragazzini riuscivano ancora a intrufolarsi in queste cavità sotterranee. Nella tesi di laurea sulle Buche delle fate, scritta un ventina d’anni fa, Oscar Calì e Andrea D’Afflitto descrivevano gli spazi come “cavità molto anguste da visitare a causa del poco spazio rimasto tra le volte e l’attuale piano di calpestio.” Ormai da decenni l’accesso è stato precluso al pubblico, facendo cadere le Buche nell’oblio. Tuttavia, quando l’area archeologica di Fiesole riaprirà in questi giorni, potremmo andare a sederci nella parte alta della cavea del teatro e immaginare le voci del canonico, dei quattro Carabinieri (i tre martiri e l’appuntato Naclerio), dei due laureandi e degli innumerevoli ragazzini fiesolani che si sono divertiti a giocare nelle Buche delle fate.